Foodwriting: le parole esauste quando si parla di cibo vegan

State per leggere un articolo un po’ spinoso, per nulla accondiscendente o buonista. Vi parlerò di foodwriting in ambito vegan, ovvero di terminologia, stili e contenuti che riguardano la cucina vegetale.

Scrivo di cucina vegana da diversi anni ormai: ho iniziato con un blog di ricette, per poi scrivere per riviste e siti di cucina, ho scritto un libro, ho curato alcune pubblicazioni e per lavoro aiuto aziende che producono cibo vegetale o linee vegane a comunicare con i consumatori.

Nel 2017, durante la prima edizione di Artigiani delle Parole, la bravissima Annamaria Anelli ha tenuto un discorso illuminante sul “fascino delle parole vuote”. Mentre lei leggeva e commentava testi aziendali e annunci immobiliari di una (interessantissima) noia mortale, io me ne stavo seduta tra i presenti, con blocco e penna in mano. Quello che diceva riguardava anche me, il mio mondo e il mio modo di scrivere. Alla fine del suo discorso ho capito l’urgenza di abbandonare le parole esauste che riempivano i testi che scrivevo, uscire dagli schemi e alzare l’asticella della qualità.

Frasi fatte, strausate e ormai sgualcite del vegan

Quello che possiamo notare tutti, senza sposare necessariamente la causa, è che il vegan food è un mercato in costante crescita. Tuttavia, se prestiamo attenzione ai contenuti, alle parole che descrivono e raccontano questo tipo di cucina e scelta etica, ci rendiamo conto che ci sono delle espressioni ormai esauste di cui non se ne può più.

Una sorta di corollario di termini, frasi fatte, concetti triti e ritriti di cui dopo così tanto tempo dalla prima apparizione del termine vegano possiamo fare a meno. O me lo auspico.

Ora basta discorsoni, andiamo alla ciccia (vegana ovviamente). Ecco quelle che eliminerei subito.

  • “una cucina buona e sana”: questa espressione, viene ripetuta fino allo sfinimento. Sottintende che quello che non è vegano è potenzialmente cattivo e nocivo. Può anche essere vero, com’è vero che un piatto vegetale può essere insapore o completamente sbilanciato e un dolce fritto e pieno di zucchero è vegano ma per nulla salutare. Valutiamo da contesto a contesto se vale la pena usare questa espressione come riempitivo o possiamo fare di meglio.
  • “100% vegetale”: quest’espressione nasce essenzialmente per non ripetere o evitare “vegan(o/a)” ed è la sorella brutta di “tutto vegetale“. Ho un aneddoto simpatico per voi. Ad una riunione sul lancio di un nuovo prodotto, si stava parlando del packaging e la grafica ingaggiata dal cliente non faceva che ripetere entusiasticamente che avrebbe scritto 100% vegetale in ogni luogo e in ogni lago della confezione. Le opzioni presentate al cliente, infatti, vedevano questa scritta a lettere cubitali campeggiare ovunque, in un caso era perfino più in grande del nome del prodotto stesso. Si tratta di un’azienda che da quasi vent’anni produce alimenti vegetali e alternative alla carne, con un’identità ben precisa, distribuita da negozi e canali che sposano una certa etica. Avevano solo bisogno di una confezione un po’ più accattivante. Perché asfissiare lo spazio a disposizione con una scritta brutta, vuota, solo perché pensi che vada di moda e che ci si aspetti questo? Qualcuno nel 2019 ha ancora dubbi che il tofu non sia di origine vegetale?
  • ….vegetale ma senza rinunciare al gusto“: io spero vivamente che nessun tipo di cucina rinunci al gusto, sennò mangeremmo cartone o la sbobba che danno a Neo in Matrix. Probabilmente, si vuol intendere che anche se non mangiamo una fiorentina grigliata o una tagliatella al ragù possiamo ancora sperare di sperimentare qualcosa di gastronomicamente interessante. Vi svelo un segreto: non solo è possibile, ma si può anche raccontare con parole più saporite.
  • “una cucina etica”: scrivere etico parlando di cibo vegano, può non andare sempre bene. E’ un termine che, a mio avviso, andrebbe preso con le pinze. Etico non significa solo che un cibo non contiene animali o non sfrutta animali per essere realizzato, si estende anche all’impatto ecologico che ha tutto il processo produttivo e distributivo e alle condizioni e alla remunerazione dei lavoratori coinvolti. Non diamo per scontato che un cibo vegetale sia per forza anche etico: il concetto di cruelty-free è relativo e va centrato in modo adeguato.

Ce ne sarebbero molti altri forse da aggiungere, e probabilmente ritornerò a scrivere sul tema prima o poi.

Ogni ambito e area di specializzazione ha le proprie frasi fatte, espressioni tipiche e logore, quelle che soffocano il testo più che renderlo un mezzo di comunicazione potente ed efficace. Gli addetti ai lavori lo sanno, ma com’è successo a me, spesso si cade nei cliché, nella comodità di scrivere ciò che ci si aspetterebbe di leggere, piuttosto che far emergere nuove soluzioni, che dicano la stessa cosa, ma con un piglio nuovo e fresco.

Siccome ci tengo, riprenderò il discorso prossimamente anche fuori dal blog: il 25 marzo terrò una lezione online con Langue&Parole che fa parte di un corso più ampio e strutturato dedicato a Food Writing e Food Photography.

Se l’articolo vi ha stuzzicato le sinapsi e vi va di proseguire la conversazione ci vediamo lì.

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