Sbagliare è umano, parlarne è divino

Sbagliando s’impara, l’avete mai sentito dire? E’ una frase fatta che sentiamo ripetere da sempre da chi ne sa più di noi, ma quando si parla di lavoro (e non solo) facciamo fatica a parlare di errori e fallimenti. Mi sono chiesta il perché e ho cercato di capire quali sono le motivazioni che ci impediscono di vedere uno sbaglio come un’occasione per imparare e di parlarne apertamente.

Perché è difficile parlare dei nostri fallimenti

Probabilmente, come molti di voi sono cresciuta in un contesto sociale che non ammette errori di percorso e che glorifica in base ai successi.

Se hai successo significa che non hai commesso errori. Hai preso le decisioni giuste, hai avuto la cosiddetta botta di culo, hai imparato da persone autorevoli, sei intraprendente, intelligente, geniale. E chi non vorrebbe essere così?

Ma vi è mai capitato che nonostante aveste fatto secondo il manuale poi le cose non fossero andate come speravate?

Che tutto l’impegno, l’esperienza, le fatiche compiute vi abbiano poi comunque condotto a un punto morto, se non proprio a sbattere la testa su un muro con su scritto EPIC FAIL?

Giusto per andare controcorrente, vi racconto il mio primo grande insuccesso e un grande bruciore di stomaco.

Giuda ballerino!

Poco dopo la laurea triennale, mi viene commissionata una prova di traduzione per poter collaborare con una piccola agenzia di traduzione che si occupava (qui chi è del mestiere ora riderà di gusto) di fumetti. Sì, signore e signori, fumetti.

Ero emozionata, al settimo cielo. E, ad essere del tutto sinceri, anche un po’ tronfia dato che ero una devota lettrice e spasimante di Dylan Dog.

Arriva la prova di traduzione e io, fresca di laurea, conosco per filo e per segno la teoria.

La traduzione è dall’inglese, qualche pagina di un numero di Superman. E’ quasi troppo semplice. Così semplice che vado in panico, l’ansia prende il sopravvento. Non può essere così semplice, mi dico. Perdo tempo su inezie, correggo e cambio versione più e più volte. Abbandono la traduzione e la riprendo il giorno dopo. La rileggo e la cestino. E più passano le ore, più mi agito perché immagino il mio committente che picchietta l’indice sul polso, tic toc tic toc, mentre solleva gli occhi al cielo.

Com’è andata a finire?

Male. Non era una buona prova. Cosa mancava? Con il senno di poi direi, la luciditàLa lucidità mi avrebbe fatto capire che quella traduzione era la cartina tornasole della mia paura di sbagliare e della mia inesperienza. Per paura di sbagliare non avevo osato, non ero stata creativa dove sarebbe servito, volevo stare sul sicuro e ho dimenticato il lettore.

Chi legge un fumetto ha bisogno di testi scorrevoli, credibili, capaci di intrattenere… e cosa avevo consegnato io? Uno scambio di battute piatto e impersonale, condito con un errore di battitura. Pure.

Dopo che la mia prova venne rifiutata, non ne parlai con nessuno. Ho chiuso l’ esperienza in un remoto cassetto mentale e ho fatto finta che non fosse mai successo.

Ironicamente, il mio più grosso errore fu aver paura di commettere errori.

Che senso ha parlare dei propri fallimenti?

Il fallimento, per quanto possa essere motivo di vergogna, non solo può rivelarsi un episodio positivo per il nostro rendimento e crescita professionale ma ci può insegnare qualcosa su noi stessi.

In più capita a tutti, prima o poi, di fallire. Fa parte del nostro essere umani, per natura imperfetti, ma in continua evoluzione.

A distanza di quasi 10 anni mi sento davvero ridicola ad aver reagito in quel modo. Ma è pur sempre il modo più plausibile in cui una persona immatura si sarebbe comportata. E io immatura lo ero eccome.

Pur avendo tutte le competenze per svolgere quel lavoro, avevo sbagliato completamente l’approccio. Cosa sarebbe cambiato se, invece, al tempo ne avessi parlato con un insegnante o con le mie colleghe? Quanto avrei giovato di un buon consiglio o di una parola di sostegno durante il lavoro? Insomma, ci stava, era la mia prima vera prova di traduzione. Avevo 21 anni.

Gli errori che ci fanno bene

Non ricordo chi disse che non si impara dai successi, ma bensì, dagli errori che commettiamo. Niente di più vero. Questo non dovrebbe incitarci a sbagliare a più non posso, a lavorare distrattamente o a non impegnarci al massimo.

Imparare a essere un po’ meno severa con me stessa, a chiedere scusa, a rimediare e accettare che la perfezione non esiste… questo mi ha aiutato molto. Ancor più utile mi è stato, imparare a parlarne, a confrontarmi e a prendermi un po’ meno sul serio.

Abbiamo il dovere di imparare dai nostri errori. Dagli incidenti di percorso bisogna trovare un modo di riemergere, ed è quello il momento di crescita. E’ così che forgiamo la nostra esperienza e acquistiamo sicurezza. In quel momento, il nostro modo di lavorare passa di livello e somigliamo un po’ di più al professionista che vorremmo essere.

Sono ancora distante dal vivere i momenti di stress e gli intoppi con la pacata risolutezza di un sorridente monaco buddista.

Ma dai miei fallimenti ho imparato due cose importanti.

La prima è che in caso di fallimento conclamato o imminente, si può chiedere aiuto (o scusa). La seconda, è che una volta superata la crisi, sei ancora più forte di prima.

Consigli per gli ascolti

Se siete interessati a imparare dai vostri errori e da quelli degli altri, vi consiglio un podcast eccezionale The Other F Word, in cui F sta per Failure. Storie di persone umane come noi, che non fanno sempre centro, ma che hanno capito come aggiustare il tiro.

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