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Il cibo nei libri che leggiamo: il caso Eleonor Oliphant

Il cibo fa parte della nostra cultura, è parte integrante delle nostre abitudini, come e cosa mangiamo parla di noi.

Il cibo nei libri che leggiamo, descrive tradizioni e racconta le persone. Ma non necessariamente deve apparire in opere dichiaratamente culinarie come ricettari, biografie di grandi chef, manuali o classici del food writing.

Gli esempi di food writing più interessanti che io abbia mai letto nella mia vita non si trovano in opere come Mastering the Art of French Cooking di Julia Childs, ma le ho incontrate per tra le pagine di romanzi con un piglio insospettabilmente… gastronomico.

Volete un esempio?

Il caso Eleonor Oliphant sta benissimo

Ho letto questo libro prima di Natale, stava appollaiato nello scaffale delle novità delle mia biblioteca e l’ho preso un po’ scettica, come ogni volta che scelgo un libro di cui si sta parlando molto. La storia è molto commovente, intensa e, in certi punti, addirittura tagliente. Parla di solitudine, di violenza domestica, di amicizia, ma soprattutto di rinascita.

Non è sicuramente un libro dal quale ti aspetteresti di trovarti a tu per tu con delle narrazioni gastronomiche emozionanti. E invece, sorpresa.

Eccone alcune.

Dal lunedì al venerdì arrivo alle 8:30. Mi prendo un’ora di pausa pranzo. All’inizio mi portavo un sandwich, ma a casa il cibo scadeva prima che riuscissi a finirlo, quindi adesso mi compro qualcosa nella via principale. Il venerdì termino sempre con una visita da Marks and Spencer, che conclude bene la settimana. Ogni giorno mi siedo sempre nella saletta per i dipendenti con il mio sandwich e leggo il giornale da cima a fondo, dopodiché faccio le parole crociate. […] Preparo la cena e la mangio ascoltando The Archers, il radiodramma su BBC4. Di solito mi faccio una pasta col pesto e dell’insalata: una pentola e un piatto. La mia infanzia è stata piena di contraddizioni culinarie e nel corso degli anni ho cenato sia con capesante pescate a mano sia con merluzzo precotto. Dopo aver riflettuto a lungo sugli aspetti politici e sociologici della tavola, mi sono resa conto di non provare alcun interesse per il cibo. Le mie preferenze vanno al mangiare economico, rapido e semplice da reperire e preparare, ma che al tempo stesso fornisce a un individuo gli elementi nutritivi necessari a mantenersi in vita.

Un po’ più avanti…

La pizza era eccessivamente unta e la pasta era molle e insapore. Decisi subito che non avrei mai più mangiato una pizza a domicilio, e di sicuro non con il musicista. Se ci fosse mai capitato di volere una pizza e fossimo stati troppo lontani da un Tesco Metro, sarebbero potute accadere due cose. La prima: avremmo preso un taxi per il centro e avremmo cenato in un bel ristorante italiano. La seconda: lui avrebbe fatto la pizza per entrambi, partendo da zero. Avrebbe preparato l’impasto, stendendolo e lavorandolo con quelle dita lunghe e affusolate, sbattendolo fino a ottenere ciò che voleva. Si sarebbe messo ai fornelli, avrebbe fatto sobbollire i pomodori con erbe aromatiche fresche, trasformandoli in una salsa ricca, fluida e rilucente di olio d’oliva. […] Dopo aver composto la pizza, ricoprendola di carciofi e finocchi tagliati fini, l’avrebbe infilata in forno […]. Avrebbe lentamente cavato il turacciolo da una bottiglia di Barolo con un lungo schiocco soddisfacente e l’avrebbe messa in tavola, poi avrebbe spostato la sedia per me.

Mica male per una che non è per nulla interessata al cibo, no? 😉

(in ufficio) Ho la mia tazza e il mio cucchiaio, che tengo nel cassetto della scrivania per motivi d’igiene. I miei colleghi pensano che sia una stranezza, o almeno lo deduco dalle loro reazioni, ma loro sono felici di bere da contenitori sudici, lavati distrattamente da mani sconosciute. Non riesco nemmeno a concepire l’idea d’infilare un cucchiaino, leccato e succhiato da uno sconosciuto neanche un’ora prima, in una bevanda calda. Disgustoso. 

(il tè in questione è Darjeeling di prima fioritura)

Concludo con questo ultimo ritaglio:

Per la prima volta nella mia vita da adulta ero andata in un fast food, un posto enorme e chiassoso all’angolo con il locale del concerto. […] Mi domandavo perché degli esseri umani fossero disposti a fare la coda a una cassa per ordinare del cibo industriale, portarlo poi a un tavolo che nemmeno era stato apparecchiato e mangiarlo dalla carta. Infine, nonostante abbiano pagato, i clienti stessi sono responsabili dell’eliminazione dei rifiuti. Molto strano. Dopo aver riflettuto un po’, avevo optato per un quadratino di un pesce bianco non meglio definito, rivestito di briciole di pane, fritto e quindi infilato in un panino eccessivamente dolce, accompagnato curiosamente da una fetta di formaggio conservato, una foglia moscia di lattuga e una specie di bava bianca, salata e piccante, che rasentava l’osceno.

Mi fermo qui, ma ne ho segnate davvero molte altre di queste dilungazioni e narrazioni sul cibo.

E’ o non è food writing questo?

Io dico di sì. Se vogliamo fare un’analisi dettagliata, troviamo tutte le caratteristiche necessarie a rendere una descrizione gastronomica efficace: l’utilizzo dei cinque sensi per descrivere il cibo, l’esperienza gastronomica, il cibo come ricordo o come abitudine, il modo di mangiare come descrittore di una persona, di una cultura e del significato sociale che il cibo ha. Trovo molto interessante poi, che non ci si limiti a descrivere solo cibo buono, che invoglia, che stuzzica. Compare anche il cibo utile, che soddisfa necessità primarie, e il cibo pessimo e di cattiva qualità.

In più, la protagonista si racconta attraverso ciò che sceglie di mangiare e come lo mangia. Il suo rapporto con il cibo ci dice che vive in maniera pratica per minimizzare gli sforzi, le spese e i rapporti interpersonali, che non ha una vita sociale, ma conosce molto bene la differenza tra ciò che è buono e ciò che non lo è. E’ un’acuta osservatrice e non si accontenta di qualsiasi cosa. Ma soprattutto conosce i cibi raffinati e come si preparano.

Perché volevo raccontarvi tutto ciò

Mi trovo spesso a parlare del lavoro del food writer. Mi scontro spesso con pregiudizi legati a questa etichetta professionale un poco sfocata. E quando non devi spiegare da capo cosa significa scrivere di cibo, spesso ti trovi di fronte a chi crede che il food writer sia un critico o, al massimo, un food blogger. Anche a chi scrive di cibo ad un certo punto capita di fossilizzarsi e chiudersi nelle proprie dinamiche e dimenticare cosa c’è lì fuori ancora da esplorare.

Trovare in un romanzo, così tanto spazio per il cibo, è un’esperienza speciale. Mi ha fatto battere il cuore. Che Gail Honeyman sia o non sia una food writer, questo poco importa. Ciò che conta è che se lo volesse, lo farebbe maledettamente bene.

Foodwriting: le parole esauste quando si parla di cibo vegan

State per leggere un articolo un po’ spinoso, per nulla accondiscendente o buonista. Vi parlerò di foodwriting in ambito vegan, ovvero di terminologia, stili e contenuti che riguardano la cucina vegetale.

Scrivo di cucina vegana da diversi anni ormai: ho iniziato con un blog di ricette, per poi scrivere per riviste e siti di cucina, ho scritto un libro, ho curato alcune pubblicazioni e per lavoro aiuto aziende che producono cibo vegetale o linee vegane a comunicare con i consumatori.

Nel 2017, durante la prima edizione di Artigiani delle Parole, la bravissima Annamaria Anelli ha tenuto un discorso illuminante sul “fascino delle parole vuote”. Mentre lei leggeva e commentava testi aziendali e annunci immobiliari di una (interessantissima) noia mortale, io me ne stavo seduta tra i presenti, con blocco e penna in mano. Quello che diceva riguardava anche me, il mio mondo e il mio modo di scrivere. Alla fine del suo discorso ho capito l’urgenza di abbandonare le parole esauste che riempivano i testi che scrivevo, uscire dagli schemi e alzare l’asticella della qualità.

Frasi fatte, strausate e ormai sgualcite del vegan

Quello che possiamo notare tutti, senza sposare necessariamente la causa, è che il vegan food è un mercato in costante crescita. Tuttavia, se prestiamo attenzione ai contenuti, alle parole che descrivono e raccontano questo tipo di cucina e scelta etica, ci rendiamo conto che ci sono delle espressioni ormai esauste di cui non se ne può più.

Una sorta di corollario di termini, frasi fatte, concetti triti e ritriti di cui dopo così tanto tempo dalla prima apparizione del termine vegano possiamo fare a meno. O me lo auspico.

Ora basta discorsoni, andiamo alla ciccia (vegana ovviamente). Ecco quelle che eliminerei subito.

  • “una cucina buona e sana”: questa espressione, viene ripetuta fino allo sfinimento. Sottintende che quello che non è vegano è potenzialmente cattivo e nocivo. Può anche essere vero, com’è vero che un piatto vegetale può essere insapore o completamente sbilanciato e un dolce fritto e pieno di zucchero è vegano ma per nulla salutare. Valutiamo da contesto a contesto se vale la pena usare questa espressione come riempitivo o possiamo fare di meglio.
  • “100% vegetale”: quest’espressione nasce essenzialmente per non ripetere o evitare “vegan(o/a)” ed è la sorella brutta di “tutto vegetale“. Ho un aneddoto simpatico per voi. Ad una riunione sul lancio di un nuovo prodotto, si stava parlando del packaging e la grafica ingaggiata dal cliente non faceva che ripetere entusiasticamente che avrebbe scritto 100% vegetale in ogni luogo e in ogni lago della confezione. Le opzioni presentate al cliente, infatti, vedevano questa scritta a lettere cubitali campeggiare ovunque, in un caso era perfino più in grande del nome del prodotto stesso. Si tratta di un’azienda che da quasi vent’anni produce alimenti vegetali e alternative alla carne, con un’identità ben precisa, distribuita da negozi e canali che sposano una certa etica. Avevano solo bisogno di una confezione un po’ più accattivante. Perché asfissiare lo spazio a disposizione con una scritta brutta, vuota, solo perché pensi che vada di moda e che ci si aspetti questo? Qualcuno nel 2019 ha ancora dubbi che il tofu non sia di origine vegetale?
  • ….vegetale ma senza rinunciare al gusto“: io spero vivamente che nessun tipo di cucina rinunci al gusto, sennò mangeremmo cartone o la sbobba che danno a Neo in Matrix. Probabilmente, si vuol intendere che anche se non mangiamo una fiorentina grigliata o una tagliatella al ragù possiamo ancora sperare di sperimentare qualcosa di gastronomicamente interessante. Vi svelo un segreto: non solo è possibile, ma si può anche raccontare con parole più saporite.
  • “una cucina etica”: scrivere etico parlando di cibo vegano, può non andare sempre bene. E’ un termine che, a mio avviso, andrebbe preso con le pinze. Etico non significa solo che un cibo non contiene animali o non sfrutta animali per essere realizzato, si estende anche all’impatto ecologico che ha tutto il processo produttivo e distributivo e alle condizioni e alla remunerazione dei lavoratori coinvolti. Non diamo per scontato che un cibo vegetale sia per forza anche etico: il concetto di cruelty-free è relativo e va centrato in modo adeguato.

Ce ne sarebbero molti altri forse da aggiungere, e probabilmente ritornerò a scrivere sul tema prima o poi.

Ogni ambito e area di specializzazione ha le proprie frasi fatte, espressioni tipiche e logore, quelle che soffocano il testo più che renderlo un mezzo di comunicazione potente ed efficace. Gli addetti ai lavori lo sanno, ma com’è successo a me, spesso si cade nei cliché, nella comodità di scrivere ciò che ci si aspetterebbe di leggere, piuttosto che far emergere nuove soluzioni, che dicano la stessa cosa, ma con un piglio nuovo e fresco.

Siccome ci tengo, riprenderò il discorso prossimamente anche fuori dal blog: il 25 marzo terrò una lezione online con Langue&Parole che fa parte di un corso più ampio e strutturato dedicato a Food Writing e Food Photography.

Se l’articolo vi ha stuzzicato le sinapsi e vi va di proseguire la conversazione ci vediamo lì.

Food writing e food trend 2019: come e di cosa si parlerà quest’anno

Da quando ho iniziato a scrivere di cibo online e a occuparmi di food writing, ho capito l’importanza di saper individuare le tendenze del settore per poterne parlare in modo consapevole e aggiornato.

Il settore food, che si parli di ristorazione, critica gastronomica, social media o editoria, come ogni altro settore segue delle tendenze che non dobbiamo necessariamente cavalcare se non sentiamo nostre, ma che sicuramente vanno conosciute se vogliamo scrivere di cibo in maniera professionale.

Quali saranno i food trend 2019

Il 2019 sarà l’anno votato alla sostenibilità e all’esaltazione del cibo sano, vegetale e di ottima qualità.

Negli anni passati abbiamo già visto comparire a scaffale moltissimi prodotti biologici, alimenti ritrovati, una maggior varietà di cereali e pseudo-cereali, le tanto discusse bevande vegetali. Non solo nei blog, ma anche in ricettari e manuali di cucina pubblicati e nei menù dei ristoranti abbiamo iniziato a notare la presenza sempre maggiore di cibi non processati, sempre meno raffinati, una diminuzione dell’utilizzo di grassi animali, sono spuntate opzioni vegan e senza glutine in ogni dove. Anche le grandi aziende alimentari che fondano il proprio core business su processi produttivi tradizionali non proprio sostenibili o salubri, hanno investito nella creazione di linee vegan, bio, km0, annusando la necessità di soddisfare un target di consumatori sempre più consapevole e attento.

Negli ultimi due anni sempre più persone hanno imparato a leggere le etichette, sono nate app che a partire dal codice a barre riconosco l’INCI dei prodotti, calcolano le calorie e riportano la lista degli ingredienti. C’è chi dice che il 2017 e il 2018 sono stati gli anni in cui dietisti e nutrizionisti hanno fatturato di più, e io non posso che sottoscrivere.

Detto ciò, vediamo quali cibi saranno di tendenza nel 2019.

Cibi fermentati e gut-healthy

Ultimamente i cibi fermentati e buoni per l’intestino sono entrati timidamente ma in maniera costante tra i contenuti e i prodotti più cercati. L’anno prossimo lo saranno ancor di più. Tra le pubblicazioni spopolano i manuali di fermentazione per autoprodurre kombucha, kimchi, kefir o di autoguarigione attraverso una dieta ricca di probiotici. La vera novità, però, sarà trovarne sempre di più anche sugli scaffali dei negozi o tra le proposte di ristoranti e bar.

Cibi sostenibili, packaging ecologici

I cibi molto processati, contenenti ingredienti artificiali, incelofanati, sigillati in piccole monodosi e contenitori di plastica, con cannucce, cucchiaini, forchettine monouso, avranno sempre meno mercato, saranno sinonimo di bassa qualità e di arretratezza. Insomma, comprare e acquistare una merendina contenente, per esempio, mono e digliceridi degli acidi grassi (provenienti da scarti dell’industria della carne e del pellame), priva di aromi naturali e magari impacchettata singolarmente in plastica contenuta in una scatola di cartone e a sua volta ricoperta di plastica… beh, sarà alla moda e popolare come girare in centro con un auto non catalitica indossando una bella pelliccia di cuccioli di Dalmata.

Saranno ampiamente incoraggiate e premiate tutte quelle piccole e grandi attività che sposeranno la sostenibilità attraverso la scelta di confezioni ecologiche, la lotta allo spreco alimentare, il riutilizzo di materiali di scarto e l’uso di energie sostenibili. I valori di autenticità e trasparenza investiranno un po’ tutti tra chef, blogger, ristoranti, marchi e ogni tipo di attività legata al cibo.

Una novità che personalmente apprezzo moltissimo, sarà quella di promuovere il consumo di frutta e verdura brutte (ugly food), ovvero tutti quei prodotti esteticamente imperfetti ma ottimi dal punto di vista nutrizionale che di solito non vengono messi in vendita. Intelligenza ecologica 1 – spreco alimentare 0.

Meat free e opzioni vegane

Le catene di ristoranti di polli da batteria cotti allo spiedo, le steakhouse da famiglie e i fast food con burger a tre piani a soli 2 euro, non spariranno magicamente dal pianeta ma diciamo che saranno trendy come le scarpe ortopediche della sanitaria. Per carità, comode e funzionali, ma pur sempre un pugno in un occhio.

Sentiremo molto parlare di alternative alla carne di ogni tipo: non tramonteranno i sostituti vegetali ormai d’uso comune come seitan e tofu ma debutteranno anche snack di finta carne (a base di jack fruit per esempio) e la futuristica carne prodotta in laboratorio (heme).

Prodotti di origine animale di tendenza per il 2019? Pochi, ma ci sono: carne di capra, coda vaccina e tagli di carne insoliti (creste, animelle, zampe… sempre in linea con la filosofia zero waste). Cattive notizie invece per chi aveva puntato tutto su halloumi, uova biologiche e salmone.

Infine, permettetemi una parentesi terminologica: da oltre oceano, arriveranno alcuni simpatici neologismi da segnare nel taccuino, tra cui segnalo peganism, una nuova dieta di tendenza che combina paleo e veganismo.

Dolci meno dolci e più naturali

Lo zucchero bianco e compagnia bella hanno fatto il loro tempo, ce ne siamo accorti tutti. La sua sostituzione ha portato a un’esplosione di fantasia culinaria e riscoperta di alternative aromaticamente interessanti, non solo prettamente salutari. Malti, sciroppi, melasse, stevia, datteri e fichi secchi come se piovesse.

Andranno molto i dessert ghiacciati preparati con ingredienti insoliti come avocado, acqua di cocco, tahina, clorofilla e le coloratissime smoothie bowls che possiamo già ampiamente ammirare nei profili Instagram oltreoceano.

Cibi etnici e nuovi orizzonti del gusto

Anche se qui in Italia il sushi continua ad essere il cibo etnico più amato, sono felice di annunciarvi che le nuove tendenze gastronomiche del 2019 apriranno i confini del gusto e sposteranno un po’ più in là la nostra conoscenza delle cucine del mondo.

Tra le spezie, troneggiano le spezie mediorientali (cumino, cannella, cardamomo…) ma sentiremo parlare, e spero per tutti assaggeremo, il maneesh, il tipico flatbread con erbe e semi di sesamo.

Un occhio particolare a tutte le cucine etniche provenienti dall’anello del Pacifico. Potremmo ritrovarci sempre più spesso di fronte a piatti nuovi ed esotici, provenienti da Vietnam, Birmania e Thailandia.

Mode e tendenze del cibo: come possono essere utili al food writer?

Ma come possono essere utili tutte queste previsioni di mode e tendenze alimentari a chi per lavoro o per passione scrive contenuti che parlano di cibo?

Surfando nel web in cerca dei cibi più modaioli e cercati possiamo trovare davvero di tutto, quindi è bene focalizzarci su ciò che è veramente utile per noi. Per esempio, consultare la lista di Whole Foods sulle tendenze e novità alimentari per il 2019, può darci l’idea di cosa proporrà il mercato e quali prodotti andranno di moda sugli scaffali.

Essere a conoscenza delle nuove mode è fondamentale, ci fa stare al passo con i tempi e rifocilla la nostra enciclopedia di conoscenze. Altrettanto fondamentale è sfruttare al meglio queste informazioni: come?

Ho giusto tre consigli, pochi ma buoni.

Come il cliente, il target ha sempre ragione.

Il food writer può essere un giornalista, un blogger, un recensore di libri di cucina, un critico, uno scrittore. Ognuna di queste figure si dirige a un lettore diverso, con esigenze/età/sesso/predilezioni specifiche. Fate tesoro dei nuovi trend ma non sentitevi obbligati a creare contenuti forzati pur di spuntare le voci della lista.

La precedenza va data a chi legge e alla qualità dei contenuti.

L’importanza del contesto culturale

Non dimentichiamo che tutte (o quasi tutte) le previsioni sui food trend vengono svolte al di fuori dal mercato e dal contesto culturale italiano. Chi lavora come food writer in Italia, potrebbe informarsi sulle nuove mode, anche solamente osservando cosa propongono ristoranti, siti di cucina, programmi tv, case editrici etc. inglesi e americane.

E’ vero, siamo un popolo esterofilo, ma esperienza insegna che non tutto quello che è andato di moda l’anno scorso negli Stati Uniti, sarà prossimamente in voga anche in Italia. Il contesto culturale quindi è molto importante, esserne consapevoli per direzionare le proprie energie creative e la propria comunicazione lo è ancora di più.

Creare contenuti coerenti

Se la direzione è quella della sostenibilità e dell’autenticità dei prodotti e di chi li produce, credo che anche il food writer, se già non lo fa o non lo fa con costanza, potrebbe allinearsi con questi principi. Creare contenuti onesti, alimentati da passione, che vadano a coinvolgere chi legge in modo attivo e costruttivo. Mi sembra un buono spunto da cui partire quando si comunica con le parole e si racconta una delle cose più belle del mondo: il cibo.